Biennale di Venezia: intervista agli architetti di "Let's talk about garbage”
6 luglio 2016

Let’s talk about garbage presenta delle strategie alternative nella gestione del flusso di rifiuti che si riversa nei cunicoli e negli anfratti delle nostre città. Come può l’architettura stimolare la riduzione dello spreco di rifiuti? Come può l’architettura partecipare al processo di riciclo?
A Venezia è in corso la 15esima Mostra Internazionale di Architettura, il tema scelto dal curatore Alejandro Aravena è “Reporting from the front”, un invito ad espandere le frontiere verso un miglioramento della qualità dell’ambiente edificato e della vita delle persone.
"Let’s talk about garbage”, installazione presente nelle corderie dell'Arsenale, si inserisce perfettamente in questo contesto, analizzando il problema della sovrapproduzione di spazzatura nel mondo.
LineaLight Group, da sempre sensibile alle tematiche ambientali e della sostenibilità, ha accolto con entusiasmo la proposta di diventare sponsor illuminotecnico del progetto, supportando gli architetti Hugon Kowalsky e Marcin Szczelina nella scelta delle soluzioni ideali per valorizzare il messaggio del loro progetto.
Abbiamo chiesto ai due architetti polacchi di parlarci della loro idea di sostenibilità e di com'è nata questa installazione.
Mr. Kowalski, “Let’s talk about Garbage” è un progetto sviluppato a partire dalla sua tesi di laurea, come si è avvicinato a questa tematica?
Hugon Kowalski: L’obiettivo del mio progetto era quello di cercare di migliorare il comfort di vita di tutte quelle persone che vivono in vere e proprie “discariche”, senza apportare alcuna modifica alle loro abitudini di vita. Non avevo l’intenzione di creare qualcosa che trascurasse le esigenze delle comunità locali, infatti, nello sviluppo di questo progetto, la fase di ricerca ha avuto un ruolo decisamente importante. Cercavo informazioni che riguardassero le condizioni di vita nei bassifondi Asiatici. A Pechino, per esempio, negli anni ’90 il centro della metropoli era occupato da un’ampia estensione di bassifondi. Un giorno le autorità decisero di abbattere tale accozzaglia, trasferendo i residenti nei tipici blocchi di appartamenti. Trascorsi dieci anni ecco come andarono a finire le cose: la maggior parte degli abitanti aveva cambiato dimora mentre quelli rimasti cominciarono a lamentare le precarie condizioni sociali, le stesse che prima avevano apprezzato, quando vivevano ancora nei bassifondi.
Dobbiamo capire che le persone al di fuori dell’Europa hanno un modo diverso di intendere concetti quali privacy, spazio e la stessa concezione di abitazione. Gli architetti, invece, sembrano voler imporre il loro modo di pensare, quasi dimenticandosi che al di là del loro progetto c’è un essere umano, lo stesso per il quale il progetto è stato pensato.
Vorrei comunque precisare che l’opera presentata con Marcin Szczelina alla Biennale non è una continuazione della mia tesi di laurea, né tantomeno vuole esserne una sua estensione.
Marcin Szczelina: La funzione primaria de La Biennale dovrebbe essere quella di presentare una panoramica sulle ultime novità nell’architettura –progetti completati, nuove idee e tendenze-, mostrandocene l’evoluzione e dispensando ottimi suggerimenti su quali siano i percorsi da seguire negli anni a venire.
Comunque, limitandoci a questo aspetto, l’evento assomiglierebbe a una moltitudine di altri eventi che si organizzano ogni giorno in tutto il mondo. Fortunatamente, quello di Venezia è molto diverso; possiamo considerarlo come un tentativo di riflettere l’essenza dell’architettura e del mondo in generale. Fin dall’inizio, infatti, La Biennale si è sforzata di liberare l’architettura dalle briglie di muri, soffitti, calcestruzzo e acciaio– mostrando come questa sia molto di più che progettare edifici.
H.K.: Questo è il motivo per cui abbiamo deciso di non mostrare l’intera parte del progetto. Abbiamo scritto a Alejandro Aravena che avremmo voluto creare qualcosa che fosse percepibile in un contesto più ampio e quindi non limitato ad un oggetto ristretto.
photographs: Bartek Barczyk for Sukces Magazine
Come è avvenuta la collaborazione tra di voi?
H.K.: Penso che la linea di confine tra architettura e altre discipline sia una linea molto “liquida”, motivo per cui spesso mi capita di lavorare in gruppi multidisciplinari.
Ho incontrato Marcin molti anni fa e fin da subito ne ho apprezzato il modo di concepire l’architettura. So di poter sempre fare affidamento sulla sua opinione critica, anche se talvolta le sue opinioni sono di un’onestà davvero brutale (ride), ma ciò che conta è che siano sempre oneste.
Marcin aveva già lavorato con Aaron Betsky nell’edizione della Biennale del 2008; penso sia proprio questa nostra capacità relazionale a portarci a sviluppare progetti che vanno oltre il nostro campo d’interesse. Recentemente, per esempio, abbiamo preparato un progetto per la rivitalizzazione del Warsaw’s Zodiak Pavillion e del nuovo Guggenheim Museum di Helsinki. La giuria del concorso per questo progetto ha ricevuto più di duemila proposte di partecipazione.
MSz: Ricordo di averlo contattato molti anni fa, quando Hugon ricevette il premio internazionale per la sua tesi di laurea. Avevo scritto un articolo su di lui. Rimasi piacevolmente sorpreso dalla sua freschezza e mentalità innovativa nel campo architettonico. Da lì, abbiamo iniziato a collaborare per compiere insieme piccole e grandi imprese.
Entrando nella vostra installazione i visitatori percepiscono due mondi diametralmente opposti. Come avete ottenuto questo effetto? La scelta del tipo di illuminazione, secondo voi, ha influenzato il raggiungimento dei vostri obiettivi?
H.K.: Abbiamo deciso di confrontare come il mondo occidentale e il mondo Asiatico si approcciano al trattamento dei rifiuti, evidenziandone le differenze- e quindi le due parti della nostra installazione. Siamo circondati da elementi lavorati, viviamo in mezzo a loro. Sono numerose le imprese di costruzione che usano materiali riciclati. I rifiuti sono usati per produrre tegole di tetti, mattoni, materiali isolanti e molti altri prodotti. Il nostro atteggiamento nei confronti del rapporto tra persona e trattamento dei rifiuti è molto diverso da quello asiatico. Nelle zone residenziali occidentali sono ben delimitate le aree in cui si ripongono i bidoni della spazzatura, giacché le persone che frugano tra i rifiuti infastidiscono. Queste persone non sono le benvenute né tantomeno sono apprezzate, bensì percepite come degli ospiti indesiderati.
MSz: Dall’altra parte, parlando con alcuni urbanisti di Mumbai, in India, abbiamo scoperto come abbiano notato le modalità attraverso le quali noi Europei trattiamo i rifiuti, gettandoli in grandi sacchi neri, senza più interessarci di ciò che ci abbiamo buttato. In Asia, al contrario, tutto ciò che è dentro questi sacchi è considerato ancora buono. Per questo abbiamo voluto presentare i “due mondi” nell’esposizione: il muro nero richiama la summenzionata borsa nera, mentre l’altro lato presenta le storie dei rifiuti.
H.K.: Le persone che guardano all’interno di questa borsa nera in Asia sono un importante punto di connessione nella catena di lavorazione. A Mumbai, principalmente grazie ai residenti dei bassifondi di Dharavi, le materie prime vengono recuperate da quasi tutti i tipi di rifiuti. I residenti dei quartieri più poveri sono i veri ecologisti- non solo contribuiscono a ripulire la città dai rifiuti ma, grazie alle loro conoscenze elaborate e altamente specializzate nel riciclaggio e nell’isolamento di materiali preziosi e riciclabili, contribuiscono alla prosperità dell’economia Indiana.
MSz: Comunque, le mostre di architettura assomigliano a delle macchine del moto perpetuo- vengono fatte anche se condannate dal principio, così come sappiamo sia impossibile trovare oggetti raffinati direttamente in natura. Come può una mostra esprimere ciò che è l’architettura, un medium di per sé stessa – in quanto si basa su modelli, fotografie, film- se non è capace di esprimere in modo preciso l’indole spaziale e complessa della stessa?
Questo significa che dietro un’esposizione d’architettura si nasconde un problema fondamentale: non possono essere allestite come sono allestite le mostre d’arte. Una mostra d’arte è organizzata pensando allo spazio espositivo, in quanto deve contenere tutte le opere artistiche. Una mostra di architettura può invece contenerne solo un sostituto, una reminiscenza, poiché non vi è spazio al mondo abbastanza grande da contenerne le versioni originali.
A sua volta, la presentazione di proiezioni, modelli e fotografie di edifici non è espressione di ciò che è vero; sono simulacri, modelli fittizi che provano ad emulare la realtà, sacrificandone inevitabilmente molti aspetti importanti. Infatti, come sostiene Le Corbusier, dobbiamo vedere le cose così come esse appaiono, andare vicino all’essenza degli oggetti.
Esposizioni e mostre mimano sempre lo spazio e le situazioni create dall’architettura. Si mostrano delle para-architetture temporanee, che si rivelano e poi rifuggono. Richiamano il “vero” in modo più o meno autentico. Potremmo dire un sacco di cose a riguardo ma, in generale, lo spazio espositivo è percezione, sperimentazione e vita… motivo per cui l’illuminazione è uno dei più importanti elementi di un’esposizione. Il tipo di luce che abbiamo scelto- il suo colore, l’intensità- determina il carattere dell’esibizione.
Attraverso la scelta della luce abbiamo conferito al nostro progetto un’indole intima, estremamente personale. Sono state queste le motivazioni ad averci spinto a scegliere i vostri prodotti: Eyelet, Clivo, Angular, Vektor e Pound che hanno contribuito in modo decisivo nella creazione di quell’atmosfera sensoriale che volevamo fosse percepita dall’osservatore.
Se pensate ai prossimi 20 anni, secondo voi, quali tecnologie aiuteranno a ridurre l’impatto ambientale e il consumo energetico nella nostra società, in modo da ribaltare la situazione che ha caratterizzato gli ultimi 50 anni?
H.K.: Se sapessimo rispondere con esattezza a questa domanda, saremmo davvero molto ricchi (ride). E’ una domanda difficile, ma pensiamo che la nostra esposizione alla Biennale possa suggerire un possibile percorso. Il riciclaggio e l’inclusione dell’architettura nella riduzione dei rifiuti è oggi la miglior risposta alla domanda di effettiva cura dell’ambiente che ci circonda. Se negli anni a venire saremmo in grado di sviluppare un modo per farlo al minor costo possibile, allora il riciclo è la nostra grande occasione per rovesciare il trend già da ora in atto.
Quale aspetto della tecnologia LED considerate d’interesse nella progettazione architettonica?
H.K.: L’utilizzo della tecnologia al LED nell’industria e nell’architettura ci permette non solo di ridurre i costi di consumo energetico, ma anche di illuminare delle aree rigorosamente definite, come possiamo trovarne nelle hall di fabbriche, in catene di montaggio con luce continua, evitando che si manifesti l’avverso effetto stroboscopio.
MSz: Anche se questa tecnologia era nota già negli anni 60’ del secolo scorso, solo negli ultimi dieci anni si è potuto assistere al vero “boom” del LED. In conclusione, siamo oggi in grado di adattare la luce al LED in qualsivoglia tipologia di ambiente. Anche se il vero, grande vantaggio è ravvisabile nel risparmio energetico e nel basso impatto ambientale.
Come può l’architettura sviluppare un cultura del riuso?
H.K.: Stiamo cercando di rispondere a questa domanda con il nostro progetto. Let’s talk about garbage nasce proprio da un problema di sovrapproduzione di rifiuti. La società consumeristica contemporanea trascura la “vita nell’aldilà” dei loro prodotti di consumo, strettamente imballati in affastellamenti di plastica. Let’s talk about garbage presenta delle strategie alternative nella gestione del flusso di rifiuti che si riversa nei cunicoli e negli anfratti delle nostre città. Come può l’architettura stimolare la riduzione dello spreco di rifiuti? Come può l’architettura partecipare al processo di riciclo?- sono solo due di una moltitudine di domande alle quali si sta ancora cercando di rispondere.
Msz: Potrei rispondere tirando in ballo la parete nera che avete visto all’interno della nostra installazione a La Biennale. Abbiamo deciso di guardare all’architettura considerandola come “industria”, cercando di determinarne le condizioni, osservandola da un’angolatura che ci interessava. Nonostante l’industria di costruzione avesse già acquisito una consapevolezza pro-ecologica, ha davvero contribuito in qualche modo alla riduzione di rifiuti nel mondo? Sono milioni i prodotti impiegati giornalmente nella costruzione di abitazioni: tegole per tetti, mattoni, finestre, materiali per pavimentazioni. Abbiamo mai pensato se questi prodotti sono ecologici o meno? Abbiamo deciso di controllare, inviando alle più grandi imprese di costruzione del mondo delle domande investigative riguardanti prodotti da loro già venduti. Sfortunatamente, le risposte ottenute sono state decisamente sconvolgenti. Nonostante la loro vasta produzione, la maggior parte delle compagnie ha fatto ben poco in funzione di uno sviluppo sostenibile o per ridurre l’ammontare di rifiuti nel mondo. Le imprese di costruzione devono capire che anche loro sono responsabili dell’ambiente in cui viviamo, in cui i loro figli e i loro nipoti vivranno. Per questo motivo il nostro progetto è per noi importante, in quanto promuove idee sul riciclo o sullo sviluppo sostenibile, presentandone valide alternative per l’architettura.
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In questa installazione sono stati utilizzati i prodotti Eyelet, Clivo, Angular, Vektor e Pound tutti della collezione I-LèD. Potete leggere di “Let’s talk about garbage”anche su Interni Magazine.